Il Compagno Cesare Pavese, “non è un buon compagno” ?!

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

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« “P. non è un buon compagno”….discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore», annotava Pavese amaramente sul suo diario il 15 febbraio del 1950 e nello stesso giorno aggiungeva ,«La vita storica si sviluppa dal mito, non dalla religione. Mito pre-storia, religione sopra-storia.»

Sul rapporto di Cesare Pavese con il PCI si sono scritte cose controverse, vere e proprie bugie. Lo scrittore nel 1947 scrisse “Il Compagno”, un libro fiducioso del futuro, ricco di vitalità e di speranze.

La trama

Il protagonista di questo romanzo, Pablo, ama la musica, suona la chitarra e non ha un’idea precisa di cosa fare nella vita.

“Mi chiedevano perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina, non  lontano si vedeva il ponte…  avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso.”

Nell’incidente in motocicletta, Amelio impegnato in attività politica antifascista  a cui Pablo era estraneo, resta paralizzato e tra Linda (la ragazza di Amelio) e Pablo nasce una attrazione e iniziano a frequentarsi. L’ambiente è quello popolare e proletario di Torino, Pablo fa il camionista, ma spera di poter vivere con Linda. Ben presto la speranza di Pablo si rivela solo una fantasia amorosa perché Linda si fidanza con Lubrani, un impresario teatrale frequentatore della vita notturna torinese.

Per dimenticare la delusione amorosa, Pablo si trasferisce a Roma e  inizia la seconda parte del libro. Nella capitale Pablo si fa nuovi amici, si accosta alla politica antifascista e aiuta Gina, una giovane vedova, a gestire un negozio di ciclista che la donna ha ereditato dal marito e si fidanza con lei.

«Lei mi disse che andava al cinema quel giorno, io pensai “Con la blusa a quadretti?”. Nel pensarlo le diedi un’occhiata. Lei mi capì e la vidi ridere con gli occhi. Accidenti, era ben sveglia… e sembrava un ragazzo. Fino a notte rividi la testa riccia e quella bocca e il camminare nella tuta. Fu quella volta che scappai senza aspettare che chiudessimo.»

Pablo legge libri proibiti dal regime grazie ai quali matura in lui una maggiore motivazione e consapevolezza dell’impegno politico. Partecipa così al movimento antifascista operaio della Capitale, finché non viene a sapere dell’arresto di Amelio a Torino e di altri arresti nel movimento antifascista romano. Dopo qualche giorno Pablo stesso viene arrestato. Nonostante le percosse, il giovane non confesserà e verrà rilasciato per assenza di prove, con l’obbligo di rientrare a Torino dove incontra Gina con cui il rapporto si è fatto serio e positivo. Infine lascia la città, con la speranza che la donna lo raggiungerà nella città sabauda.

Ne “Il Compagno” Pavese è riuscito a raccontare la cospirazione politica con minuzia asciutta e senza cedimento alcuno alla retorica. I protagonisti, sono operai che svolgono attività clandestina come un dovere, un lavoro, al di là di ogni decantazione, o incanto, e senza un gesto eroico o solo eccezionale.

Il libro per Pavese rappresenta un caso unico, un “unicum”, sia per le speranze politiche e sociali che corrispondevano alle aspettative del dopoguerra, sia per la narrazione “positiva” della relazione tra un uomo e una donna, uno stato di “grazia”, che non si ripeterà in altri libri e racconti dello scrittore.

Il romanzo venne accolto con favore dalla critica, Emilio Cecchi “…sembra ormai una profezia a buon mercato che di questo passo egli dovrà arrivare assai lontano” e così pure altri critici prevedevano per Pavese, che non aveva ancora 40 anni, un ruolo da protagonista nella letteratura italiana.

Nel coro di critici entusiasti, si distingue la recensione di Giancarlo Vittorelli: “Pavese ha qualità. Ma perché la struttura interna del libro è all’americana? …E glielo domando, anche in nome di quel marxismo che Pavese professa e che ne Il compagno vuole, sia pure artisticamente, servire…..
.. mi domando però come mai il suo “compagno” ha tutta l’abulia, la meccanica indifferenza, il vagabondaggio lirico del convenzionale personaggio all’americana. Di italiano non ha niente. Ma allora perché farne un operaio torinese; ma allora perché dargli figura di italiano sotto il fascismo, perché presentare questo romanzo come un documento sociale (sia pure d’arte) del ventennio? …..“
 e conclude: “Pavese è uno scrittore dotato. Forse è vittima di uno schema erroneo.”

Nell’ottobre del 1948 sul diario di Pavese si legge una rara annotazione a proposito de “Il compagno”, di una commovente compostezza:
“Riletto, ad apertura di pagina, pezzo del Compagno. Effetto di toccare un filo di corrente. C’è una tensione superiore al normale, folle, uno slancio continuamente bloccato. Un ansare.

Risultati immagini per il Compagno film per la TV diretto da Citto Maselli nel 1999.

Dal romanzo fu tratto in seguito un film per la TV diretto da Citto Maselli nel 1999.

L’impegno politico e il lavoro editoriale nella casa editrice di Giulio Einaudi sono tra gli aspetti meno noti dello scrittore ma che  lo assorbirono per anni: venne assunto infatti nel 1938, ma a partire dal 1940, quando Leone Ginzburg (che era stato l’ispiratore di Giulio Einaudi), venne mandato al confino, ricoprì di fatto il ruolo di direttore editoriale.

La casa editrice, nonostante le difficoltà iniziali, amplificate dalla seconda guerra mondiale, diventò nel dopoguerra un punto di riferimento culturale per il mondo intellettuale italiano, in particolar modo per quella parte del paese antifascista e di sinistra. Pavese si occupò di tutto, dalla apertura della sede a Roma, alla progettazione delle collane, al tenere i contatti con i collaboratori. Legge centinaia di testi: le lettere sono una testimonianza, inappuntabile e preziosa di questo lavoro, i giudizi sono sempre sinceri, a volte sferzanti, ma sempre di grande umanità e correttezza. Questo lavoro sarà una ragione di vita per lo scrittore che con ironia scrisse Lavoro come uno schiavo egizio”

.

In concomitanza con il lavoro editoriale – nel 1944 maturò in lui l’adesione al comunismo che si compì nella prima metà del ‘45, quando lo scrittore si rifugiò sulle colline di Serralunga (Alessandria). Lo rivelano tre articoli scritti da lui per conto del Pci di Casale, pubblicati il 4 maggio 1945 sul periodico partigiano “La Voce del Monferrato”, firmati “Il comitato del partito comunista” e “Il partito comunista italiano”.

Il 20 maggio del 1945 pubblicò il primo articolo sulla terza pagina dell’Unità “Ritorno all’uomo” …….  il 10 novembre scrisse all’amico Massimo Mila: «Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI».

I momenti “neri” di Pavese – accuse e fandonie

Dagli anni ’90 con l’avvento in politica di Berlusconi e il ritorno al governo del Paese della “destra nazionale” – di fatto erede del fascismo, è iniziato un processo di storicizzazione e di “revisione” del periodo fascista e della guerra civile con il duplice obiettivo di annacquare le responsabilità del fascismo vero (regime) che ha governato per oltre un ventennio l’Italia sino alla disfatta e di archiviare contemporaneamente fascismo e antifascismo. Nel contempo sono circolati diversi documenti il cui scopo era quello di screditare l’integrità morale e/o politica di personalità esemplari dell’antifascismo.

In questo contesto comparvero missive di Pavese a Mussolini, taccuini segreti, tessere: si tratta in buona parte di forzature e di vere e proprie fandonie che è bene analizzare; esse riguardano l’iscrizione  al Partito Nazionale Fascista dal 1933 (presumibilmente per poter insegnare, P. aveva 25 anni), le lettere al duce intese a ottenere la grazia dal confino che lo aveva relegato a Brancaleone Calabro (1935-36) e i taccuini segreti pubblicati da Lorenzo Mondo nel 1990.

Il Confino

Il gruppo torinese di giovani intellettuali e ‘compagni’ di scuola venne sconvolto il 15 maggio 1935, in seguito alla segnalazione dello scrittore Pitigrilli, al secolo Dino Segre, spia dell’O.V.R.A., la polizia segreta fascista.

Fra gli arrestati, oltre a Pavese vi furono Franco Antonicelli, Giulio Einaudi, Vittorio Foa, Michele Giua, Carlo Levi, Piero Martinetti, Massimo Mila, Augusto Monti, Carlo Zini, e venne coinvolto anche Norberto Bobbio.

Abitualmente, nei testi, abitualmente questo gruppo viene definito il movimento politico di Giustizia e Libertà, ma in realtà alcuni di questi intellettuali agivano (per quanto fosse stato loro possibile) con azioni contro il regime fascista; altri come Pavese e Bobbio vengono coinvolti per le frequentazioni di amicizia e nel caso di Pavese anche per la relazione con Tina Pizzardo.

Pavese che non si era mai impegnato in attività cospirative contro il regime fascista, in alcune occasioni ha addebitato l’arresto al fatto di aver conservato in casa lettere di Altiero Spinelli indirizzate alla donna. Più probabilmente, invece, Pavese rimase coinvolto perché faceva parte della redazione la ‘Cultura’, un gruppo di giovani intellettuali che la polizia fascista sospettava in contatto con esponenti di Giustizia e Libertà.

Pubblico a proposito della domanda di grazia, la versione di Tina Pizzardo, la donna dalla voce roca, amata e odiata da Pavese, che lo aveva lasciato proprio durante il confino:

Non so quando ‒ ma certo non ero ancora decisa a sposarmi, perché non glielo avrei taciuto ‒ la sorella di Pavese mi ha mandato a chiamare per dirmi, con molto imbarazzo e molte esitazioni: «Cesare vorrebbe chiedere la grazia, ma non osa farlo, per lei, per paura che lei poi lo disprezzi».

Leone avrebbe risposto: «Domanda di grazia, mai, per nessun motivo», e più tardi mi ha rimproverata di non averlo detto in sua vece.

A Igea io avevo rifiutato due volte la tessera che Donna Bianca mi tendeva come un salvagente, ma Altiero aveva fatto di più, aveva rifiutato di firmare una domanda di grazia il cui esito favorevole era sicuro, e lo aveva fatto quando era all’inizio dei sedici anni da scontare (e i suoi se l’erano presa con me che non mi ero neanche provata a persuaderlo).

Infatti su questioni come: iscrizione al fascio, domande di grazia, comportamento dinanzi ai giudici, dinanzi al tribunale, io avevo, e ho, idee ben chiare. Ognuno, quando non nuoce agli altri, quando si tratta della sua vita deve decidere da sé e nessuno ha diritto d’intervenire, né giudicare. Se uno è tentato di sottomettersi vuol dire che ‒ come la stragrande maggioranza degli italiani, a quei tempi ‒ è già sottomesso. Dovremmo fargli una colpa di essere anche lui come tutti gli altri, di essere una persona normale? Quelli che rifiutano lo fanno, ed era il caso di Altiero, perché se accettassero, la vita per loro non avrebbe più senso.

Ho cercato di spiegare tutto ciò alla sorella di Pavese. «Insomma, lei è per il sì?»

«Né per il sì, né per il no, deve decidere lui. In qualunque caso per me sarà esattamente lo stesso di prima. Non è questo che può farmi cambiare l’opinione che ho di lui.»

Allora la buona Maria si prende paura: sta a vedere che questa se lo sposa in ogni caso. Mi chiede, timidamente, che intenzioni ho verso Cesare.

«Nessuna. Non lo sposerò mai, se è questo che vuol sapere. E lui lo sa. Credo che anche lei sia d’accordo con me.»

«Sì, troppa differenza d’età.»

Le brillano gli occhi di contentezza, povera cara donna.

Pavese ha fatto domanda di grazia (chissà che cosa gli ha riferito la sorella) e in marzo è tornato dal confino. …..

Al confino, da certi misteriosi accenni della sorella, si era messo in mente che io fossi in carcere (come è provato da un biglietto che conservo); arrivando aveva saputo da Sturani che ero in procinto di sposarmi.
…..
Appena arrivato è venuto a cercarmi a casa. Mi portava un regalo ridicolo e commovente: una scatolina di belletto che aveva comperato per me a Genova fra un treno e l’altro. Per esattezza devo dire che non ho mai avuto il tempo, e neanche l’arte, di mettermi qualcosa sulla faccia, salvo un po’ di rossetto sulle labbra.

Era molto triste, ma stranamente remissivo. Suppliche sì, e veramente toccanti, mai però lo scatto di chi si sente tradito. Infatti, riflettevo, lui sa di non aver nessun diritto. Con lui sono sempre stata sincera (nei limiti della decenza) e speranze non gliene ho mai date.

Pareva che avesse accettato il suo giusto ruolo d’amico.

Le reazioni all’arresto del gruppo di intellettuali torinesi di Giustizia e Libertà del 1935, furono molto diverse tra loro secondo il coinvolgimento e il ‘carattere’ delle persone coinvolte: Vittorio Foa, uno dei più attivi e coerenti, venne condannato dal Tribunale Speciale Fascista a 15 anni di reclusione con l’accusa di attività antifascista (1936). Le condizioni della reclusione furono durissime, con pesanti conseguenze sulla sua salute; uscì dal carcere di Castelfranco Emilia (MO) nell’agosto 1943 per unirsi alla resistenza.

Al di là delle sofferte scelte politiche e individuali, restava salda l’amicizia e la stima tra gli ex allievi antifascisti del D’Azeglio; è da leggere questa lettera inviata dal carcere da Vittorio Foa, qualche anno dopo, che consiglia ai genitori la lettura del primo libro di Pavese pubblicato dall’Einaudi:

“Ho letto ed ho sentito dire cose entusiastiche sul libro Paesi Tuoi di Pavese. Forse lo leggerò. Leggetelo. Pare che non sia semplicemente un’imitazione di certe mode letterarie americane, ma un’opera originale e profonda sulla vita piemontese, anche se improntata a quei modi espressivi spicci e vigorosi a cui ci hanno ormai abituati Dos Passos e Steinbeck.”
Lettera di Vittorio Foa ai genitori, dal carcere di Civitavecchia, 11 agosto 1941

Negli anni ’90 il fatto che destò maggiore scandalo fu il ritrovamento della lettera di pentimento che Norberto Bobbio indirizzò al duce. Lettera che gli consentì di cavarsela e di ottenere la cattedra di Filosofia del diritto a Camerino.

Si disse, di Bobbio, che avesse approfittato di appartenere a una famiglia agiata, il padre Luigi era primario di un ospedale a Torino, e una parte Ginzburg_Pavese_Antonicellidella famiglia aveva fatto ‘carriera militare’. Questa parte della vita di Bobbio divenne oggetto delle polemiche più disparate, all’inizio degli anni ’90, nel momento in cui Bobbio era uno dei filosofi più letti al mondo, senatore a vita e candidato a succedere a Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Sono testimone oculare (siamo originari dello stesso paese, Rivalta Bormida) che Bobbio più volte avesse raccontato in dialoghi privati e in occasioni pubbliche, (nel suo paese di origine), dolente e ironico, le ambiguità della sua famiglia verso il regime fascista ben prima che venisse fuori lo scandalo. Bobbio, che allora aveva 90 anni, più volte mi raccontò, sconsolato, di non avere energie sufficienti per rispondere a tutti quei detrattori che lo avevano accusato di ambiguità con il regime. Più volte ho visto Bobbio, incontrando persone del paese che gli facevano menzione delle visite di Pavese e di Antonicelli, chieder loro con ansia se si ricordavano di Leone Ginzburg, uno degli amici più cari, morto nel 1944 a seguito delle torture nazi-fasciste, nel carcere di Regina Celi, perché si era rifiutato di ‘collaborare’. Quegli anni furono drammatici e Bobbio si rammaricava dell’oblio in cui era caduto Ginzburg, più coraggioso di tanti altri antifascisti, venuti a patti col fascismo.

Sulle accuse a Bobbio, la testimonianza più importante è quella di Vittorio Foa che pagò duramente con anni di carcere il proprio antifascismo.FOA

Vittorio Foa, dopo essersi detto «disgustato» dalla pubblicazione della lettera di Bobbio, in una lunga intervista pubblicata su “La Stampa” del 16 giugno 1992(15), espone in forma più ampia la sua opinione sull’episodio, sostenendo fra l’altro che la lettera di Bobbio «è, da ogni punto di vista, politico o morale, assolutamente irrilevante. L’ammonizione era una violenza nei suoi confronti, era una misura amministrativa che poneva limiti alla libertà personale e alla capacità di viaggiare e lavorare. Era una violenza dalla quale Bobbio aveva il diritto di difendersi: io mi sento di parlare di legittima difesa. (…) Questa lettera va letta come un ricorso nei confronti di un provvedimento amministrativo». Foa critica duramente l’iniziativa di “Panorama” definendola «una forma di denigrazione nei confronti di un uomo la cui vita, tutta la vita, merita ammirazione e rispetto. È un’aggressione, una violenza che ci offende».

Foa nell’intervista, che potete leggere integralmente, difese tutti i compagni coinvolti nei fatti del ’35: discolpò completamente Massimo Mila, il quale in un interrogatorio pare avesse accusato Foa, attribuendone il cedimento alla violenza fisica e morale operata contro di lui dall’apparato repressivo fascista.

Il tentativo iniziato negli anni ’90 e ancora “in fieri” è stato quello di livellare, mettere sullo stesso piano, fascisti e antifascisti, confondere il “giusto con l’ingiusto” smarrendo la distinzione tra chi lottava dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata.

Il frutto di questa confusione storica, a ben vedere, ha comportato la progressiva sparizione di valori quale quello dell’uguaglianza e della solidarietà.  La politica è diventata, anche a sinistra, un mezzo per soddisfare le proprie ambizioni personali o di gruppo.

Il taccuino segreto

Lorenzo Mondo raccontò su La Stampa del 1990 “di aver avuto verso il 1962” da Maria Sini, sorella di Pavese un taccuino o meglio 29 foglietti di bloc notes,  dell’autore de La luna e i falò. Lo mostrò a Italo Calvino, allora dirigente dell’Einaudi. “Andai da Calvino che stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo. Pensai, a grande velocità, che per il momento era opportuno mantenere il riserbo sul testo. Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese. ‘Tienilo tu – gli dissi – mettilo in cassaforte. Quando varrà la pena di pubblicarlo, ricordati di me’”.

Racconta sempre Mondo su La Stampa del 1990: “Dopo l’impresa dell’epistolario (ne uscirono due volumi con lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si trasferì a Roma. E quelle poche volte, nessuno di noi toccò l’argomento. Avevo del resto una mia idea. Pensavo di scrivere una vita di Pavese nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il capitolo sconosciuto della biografia pavesiana”. Ma “il lavoro giornalistico sempre più intenso”, proseguiva, “la sopravvenuta disaffezione per l’argomento, la pigrizia, mi fecero accantonare il progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a qualche amico. Chissà dov’era mai finito l’originale. Dimenticato o perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi che si sono chinati sui fogli pavesiani? A ogni importante occasione (anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l’oggetto misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo un trasloco, le vidi riaffiorare”. E i taccuini vennero pubblicati con scarso successo.

Sui taccuini “segreti” dello scrittore resiste più di un sospetto sulla loro autenticità, ma anche dando per scontato che siano autentici e che anche Italo Calvino avesse deciso di censurarne la pubblicazione, non mi pare che questi 29 foglietti di bloc notes, siano in grado di confutarne il complesso codice etico di Pavese di amicizie, di migliaia di pagine scritte, di rapporti di lavoro. Mi pare un tentativo ignobile quanto quello di voler comprendere una persona spiando dal buco della serratura. Le frasi che fecero più scalpore:

«Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto». O in altra pagina: «Stupido come un antifascista».

e pure il paragone tra il nazismo e la Rivoluzione francese è così scandaloso?

«Tutte queste storie sulle atrocità naziste che spaventano i borghesi che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione sua?

Per finire con l’equazione “tra amore infelice” (leggi Tina Pizzardo) e “antifascismo inconcludente”. Non penso che il ritrovamento di questi taccuini possa far cambiare il giudizio su Cesare Pavese, che ha scritto le pagine più umane, commoventi e di una lucidità accecante, sulla guerra civile nel libro “La casa in collina” (1947):

“… ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”

Un brano che è anche una presa di coscienza dello scrittore e la testimonianza della solitudine e fragilità della condizione umana.

Pavese non è un buon compagno (?) – decadente e dannunziano?

Nel tempo e in modo ricorrente, a Pavese viene affibbiata l’etichetta di essere dannunziano e decadente, un giudizio che ogni volta mi coglie di sorpresa e che a me pare privo di fondamenta. Tuttavia, cosa ancora più singolare, è stata che il primo a muovere questo rimprovero sia stato Augusto Monti a proposito dei racconti ‘Il diavolo sulle colline’ e ‘Tra donne sole’. Monti era stato l’insegnante del liceo d’Azeglio che con l’insegnamento di un rigoroso metodo di studio, influenzò Pavese insieme a Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e tanti altri allievi.

 Il 18 gennaio del 1950 Pavese rispose: “Caro Monti, quando ho letto il paragone con Pastonchi, “l’altro dannunziano”, ho detto: “E’ diventato fesso, e basta”…. col gusto… non si discute…. Ma un giudizio sul “positivo etico” è un’altra cosa e si discute…. Mi viene un sospetto. Che tu sia sentimentalmente così legato all’alta borghesia da seccarti quando senti dir cacca sul suo conto, e volontaristicamente così legato al mondo del lavoro, da esigere da un libro il generico astratto ottimismo di tipo militante. In questo caso, è evidente che non possiamo intenderci.

E ancora, qualche giorno dopo  Pavese risponderà a Monti in modo ‘più affettuoso’: “Legami sentimentali e ottimismo militante valevano come ritorsione polemica contro il tuo scatto. Non accettando, come non accetto, la tua accusa di odiare tutti, dovevo pure tener conto che di maltrattati nel mio libro non ci sono che certuni, e questi certuni sono quei signori…Ci siamo spiegati? se tu ritiri il dannunziano, io ritiro il sentimentale e il militante, e mi auguro che tuo nipote Carlo sia altrettanto trattabile. Ciao, sta’ bene e ricorda che Einaudi paga con dolore.”

Cesare Pavese si tolse la vita il 27 agosto del 1950. Negli anni immediatamente successivi alla scomparsa, lo scrittore divenne un punto di riferimento per una intera generazione, se non addirittura di celebrazione. L’interesse per la sua opera si attenua alla metà degli anni ’50 e Pavese diventa uno strumento per fare polemica tra una concezione ideologica della letteratura contro un’altra,  allo scopo di procacciarsi la patente di ortodossia marxista nella contrapposizione realismo/decadentismo.

In questo clima nel 1954 arriva la stroncatura di Alberto Moravia che definisce Pavese un “decadente di provincia”: Moravia manifesta una vera e propria avversione nei confronti di Pavese e definisce il diario “Il mestiere di vivere” – pubblicato postumo, un “libro penoso” .

Nel testo di Moravia, Pavese diventa la caricatura di se stesso proprio nel paragone con D’Annunzio:

“Il caso di D’Annunzio è esemplare. Nella pagina di D’Annunzio il mito non c’è. D’Annunzio, allora, lo crea nella vita con le donne, il lusso, le imprese militari, le piume ecc.”  Quindi mentre D’Annunzio aveva saputo vivere sfruttando propagandisticamente in modo scaltro la propria biografia, il povero Pavese «per ingenuità» non trova altra via, per assurgere a mito, che il suicidio.

Nel 1955, il critico Carlo Salinari, che dal 1951 al 1955 fu il responsabile della politica culturale del Pci, risponde a Moravia, “riconosce la complessità e l’interesse” dell’opera di Pavese e ne ammette la funzione culturale. Salinari afferma pure che tale funzione è «stata maggiore della sua resa artistica», e ribadisce (come Moravia), che lo scrittore piemontese è «il punto di approdo del decadentismo italiano».

Alludiamo a quel processo di sprovincializzazione, di assorbimento cioè delle esperienze decadenti della letteratura europea (francese e russa prima, inglese e americana poi) che in Italia prese le mosse dagli scapigliati, proseguì con i futuristi e soprattutto con D’Annunzio […], ma bruciò fino in fondo le esperienze e i miti decadenti soltanto con Pavese. […] perché la sua vocazione critica gli permise di penetrare a fondo i miti e le suggestioni del decadentismo, d’innestarli senza sforzo nel nucleo originario della sua ispirazione, di organizzarli in un sistema chiaro, composto e razionale, e dall’alto di esso di tentare anche l’interpretazione nuova della tradizione e dei classici.

Salinari, come tutto un filone della critica comunista-stalinista, tende a inglobare l’esistenzialismo in un prolungamento del decadentismo.

Moravia ne fa una lettura caricaturale “sfruttando” anche il nesso che viene istituito con la conversione dello scrittore piemontese al comunismo:

[…] questo esasperato irrazionalismo e antistoricismo sono quanto di più diverso e di più ostile che ci possa essere al comunismo e all’arte come il comunismo l’intende. La conversione di Pavese al comunismo acquista così il carattere di una trasmutazione o di un tentativo di trasmutazione di una somma di valori negativi (decadentistici) in uno solo ritenuto positivo. È un’operazione non nuova nella cultura italiana: dal decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio) si giunge al decadentismo trasmutato in comunismo (Pavese), ma i modi dell’operazione non cambiano.

Nonostante i ripetuti accostamenti tra Gabriele d’Annunzio e Cesare Pavese a me pare che l’unico tratto comune che si possa stabilire sia una formazione culturale classica (Omero, Dante) che accomuna entrambi gli scrittori come Abele e Caino erano figli della stessa madre.

Il mito, l’irrazionalismo e lo storicismo del PCI

Con il trascorrere degli anni Pavese approfondisce lo studio delle tradizioni folkloristiche e popolari avvalendosi di numerose fonti (la Scienza nuova di Vico, le opere dei filosofi romantici, testi di psicoanalisi, antropologia ed etnologia, fra cui quelli di Carl Gustav Jung e di Ernesto De Martino). Proprio in collaborazione con De Martino riesce a pubblicare i saggi di antropologia, nella Collana viola, una delle iniziative più “scandalose” della casa editrice perché i nomi proposti  appartenevano a una cultura bollata nel dopoguerra come “irrazionale” e considerata sinonimo di fascismo. Pavese riesce a far pubblicare autori imbarazzanti (a volte anche in contrasto con De Martino che non gradiva la pubblicazione di opere invise agli intellettuali comunisti) come Mircea Eliade, nazista riparato in America dopo il ‘45, ma studioso di primissimo piano. “Non c’è passato per la mente di esaminare la fedina penale dell’Autore – scrive Pavese a Giolitti nel ‘49 – in quanto non si tratta di opere di politica o di pubblicistica. Qualunque cosa faccia l’Eliade, come fuoruscito, non può ledere il valore scientifico della sua opera”.

Anche nei suoi libri il mito, una sorta di nostalgia del grembo materno, della terra madre, un ritorno alle verità, agli affetti, alle favole dell’infanzia, dove inizia la Storia e origina la poesia (soggettivazione del mito), diventa il centro della sua produzione letteraria e poetica. La chiave di volta è il suo libro più amato e poco conosciuto: “Dialoghi con Leucò” scritto nel 1947, un testo “unico” nel contesto narrativo del ‘900.

L’odio intellettuale di Moravia verso lo scrittore emerge e si manifesta anche nelle considerazioni sul mito (1):

Niente illumina meglio il mito di Pavese che il suo rapporto con Melville. Melville, il mito l’aveva saputo creare nella pagina ed era morto nel suo letto. Il mito della balena bianca, come tutti i miti della letteratura, nasce da una grandiosa riflessione che ha le sue radici nel senso comune o se si preferisce nell’inconscio collettivo. La riflessione riguarda il Bene e il Male, l’Uomo e la Natura, la Ragione e l’Irrazionale e così via. Ricco di senso comune, in comunicazione diretta con l’inconscio collettivo, Melville, come tutti i grandi poeti, crea il mito senza saperlo e senza averne l’intenzione. Ciò che preme non è creare il mito ma dire certe cose, ossia fornire una sua interpretazione di una visione del mondo che non è sua, avendola ricevuta in eredità dalla società di cui fa parte. Oggi si direbbe che Melville era, ingenuamente e inconsciamente, un contenutista.

L’atteggiamento di Moravia oscilla fra osservazioni acute e una fondamentale, complessiva mancanza di obiettività; di fatto pare accecato da invidia o antipatia intellettuale per l’autore della “Luna e i falò”.

Tuttavia, è evidente in Pavese una dicotomia: da una parte la volontà e lo sforzo sincero di partecipare alle speranze e agli entusiasmi dell’Italia uscita dalla guerra iscrivendosi al Partito Comunista e frequentando – dagli anni giovanili – l’ambiente politico e culturale antifascista di Torino, (scuola, amici, amori) e dall’altra la natura introversa e un profondo sentire dello scrittore. Se alle problematiche esistenziali di Pavese si aggiunge  che il settarismo (insopportabile) che ha sempre caratterizzato buona parte della sinistra italiana si è “arricchito” negli anni ’50 degli insegnamenti di Stalin per cui vigeva  il principio “secondo cui il marxismo-leninismo è la base fondamentale per la comprensione e la rappresentazione del reale, e quindi gli scienziati, i letterati, gli artisti devono porsi essenzialmente il compito di comprenderlo e di applicarlo”; e, pertanto della correttezza di una cultura socialista può giudicare soltanto l’organizzazione consapevole e cosciente del proletariato, cioè il partito.

E’ in questo contesto che giunge nel 1959 la stroncatura del capolavoro “Il Gattopardo”. Con questi intransigenti custodi dell’ortodossia del PCI si comprende perché Pavese, in un momento di sconforto, il 15 febbraio del 1950 nel diario “Il mestiere di vivere” scrivesse: « “P. non è un buon compagno”…. discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore».

Pavese d’altra parte non aveva una sensibilità politica, o forse meglio, “il vizio della politica”; il 25 novembre 1945 a un’amica scrisse: “per «sentire» la politica devo fare uno sforzo”, e il 17 gennaio del 1949 in risposta a una recensione lusinghiera del critico Emilio Cecchi alla pubblicazione di “Prima che il gallo canti”, con sincerità si sfoga sui “fermenti politici” con cui era stato accolto il libro:

”Un’ultima cosa. L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rivelare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale. Quest’è un po’ forte. Ma la perenne, quotidiana scoperta che si fa qui in Italia è «Quanto sono stato ingenuo!»”

-.-.-.-.-

  1. Alberto Moravia, Fu solo un decadente, « L’Espresso », 12 luglio 1970, p. 14.

Probabilmente il mito di Pavese va spiegato con l’incapacità dello scrittore di creare il mito nei suoi libri. Non vogliamo dire con questo che Pavese si è ucciso perché era consapevole di non essere riuscito a dire certe cose. Pavese aveva della propria opera e di se stesso un’opinione altissima, come si può vedere nel diario. Ma, strano a dirsi, è proprio questa idea esagerata di se stesso che in parte ne ha provocato la morte. Dopo aver avuto il premio Strega ed aver scritto La luna e i falò Pavese ha deciso ad un tratto che aveva ottenuto, in senso sociale e creativo, il massimo successo possibile e che di conseguenza non aveva più alcun motivo di vivere. Ha fatto un po’ come certe coppie di amanti che si ammazzano perché sono convinti che il loro amore è così perfetto da non poter essere coronato ormai che dalla morte. La verità, secondo noi, è invece diversa. Pavese non è riuscito a creare il mito nella pagina; e il suo suicidio va interpretato come un tentativo di crearlo nella vita. In questo modo si spiega non soltanto il suicidio ma anche la accurata fabbricazione e preparazione psicologica e culturale dell’atto disperato. E infatti l’operazione tristissima e orgogliosissima è riuscita. Il mito di Pavese, il mito dello scrittore che si è ucciso per motivi esistenziali sopravvivrà alla sua opera. Ma i motivi erano soltanto apparentemente esistenziali. In realtà erano letterari.
Niente illumina meglio il mito di Pavese che il suo rapporto con Melville. Melville, il mito l’aveva saputo creare nella pagina ed era morto nel suo letto. Il mito della balena bianca, come tutti i miti della letteratura, nasce da una grandiosa riflessione che ha le sue radici nel senso comune o se si preferisce nell’inconscio collettivo. La riflessione riguarda il Bene e il Male, l’Uomo e la Natura, la Ragione e l’Irrazionale e così via. Ricco di senso comune, in comunicazione diretta con l’inconscio collettivo, Melville, come tutti i grandi poeti, crea il mito senza saperlo e senza averne l’intenzione. Ciò che preme non è creare il mito ma dire certe cose, ossia fornire una sua interpretazione di una visione del mondo che non è sua, avendola ricevuta in eredità dalla società di cui fa parte. Oggi si direbbe che Melville era, ingenuamente e inconsciamente, un contenutista.
Saper criticamente cos’è un mito e decidere, per così dire, a freddo, cioè in base a una riflessione culturale, di fabbricarne uno, è invece il contrario del contenutismo ingenuo ed inconscio. È decadentismo formalistico. A suo tempo ho scritto un articolo: «Pavese decadente», che non è piaciuto agli ammiratori di Pavese; ma oggi l’idea del decadentismo di Pavese è ormai accettata. Cos’è uno scrittore decadente ? È un letterato colto e raffinato ma egotista, sfornito di senso comune e senza rapporti con l’inconscio collettivo. Questo letterato ammira i grandi poeti creatori di miti e si domanda, con ingenuità: « Perché loro sì e io no? Oltre tutto io sono in una posizione di vantaggio. Io so cos’è il mito, loro non lo sapevano ». Già, ma sapere, in questo caso, vuol dire non potere.
Tuttavia il decadente ha pur sempre una maniera di creare il mito: fuori della pagina, nella vita. Il caso di D’Annunzio è esemplare. Nella pagina di D’Annunzio il mito non c’è. D’Annunzio, allora, lo crea nella vita con le donne, il lusso, le imprese militari, le piume ecc. Abbiamo già detto che Pavese si è ucciso «anche» perché era convinto di essere ormai uno scrittore del tutto riuscito e concluso. In altri termini, Pavese si sarebbe ucciso per ingenuità, quella ingenuità che è indispensabile per creare il mito. L’ingenuità di Pavese avrebbe consistito nel darsi la morte « per la disperazione del successo ».
A riprova si confronti il suicidio di Hemingway con quello di Pavese. Il suicidio di Hemingway desta un’immensa pietà; ma non si concreta in un mito perché l’opera di Hemingway è tanto più importante della sua vita e della sua morte. Non si parla oggi di Hemingway come di uno scrittore che si è ucciso; ma come di uno scrittore che ha scritto certi libri e poi, purtroppo, si è ucciso. Il mito di Pavese è invece quello dello scrittore che si uccide. Questo mito, in certo modo, nasconde l’opera di Pavese, confondendo le idee della critica e dei lettori. Per coloro che non hanno bisogno di opere ma di miti, Pavese è un autore ideale. Così alla fine bisogna pur dire che il capolavoro di Pavese è la sua morte, cioè un evento che pur verificandosi fuori della letteratura, «continua» la letteratura. Anche qui il decadentismo si conferma un’ultima volta, tragicamente.



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